Colonialismo: una questione di genere

Vespucci incontra l’America. Illustrazione di Theodor Galle del 1589 (da Wikimedia Commons)
La rappresentazione delle donne africane ha svolto un ruolo fondamentale per la costruzione degli immaginari coloniali europei. Come ricorda Edward Said in Orientalismo (1978), la creazione di una categoria “altra”, raffigurata come inferiore e incivile, ha da sempre legittimato ogni forma di espansione imperialistica. A partire dal XVI secolo, le nuove terre vengono erotizzate e femminilizzate. Le donne colonizzate sono raffigurate come “veneri nere”, attraenti, disponibili e sottomesse. Nella logica coloniale il possesso della donna simboleggia quello della terra, e viceversa. Il colonialismo italiano non fa eccezione. Dalla fine dell’Ottocento l’Africa diventa per gli italiani un paradiso esotico e sensuale. L’espansione coloniale rappresentò una terapia per rigenerare la mascolinità. La donna africana diviene il soggetto più raffigurato nel cinema, nella fotografia, nella letteratura e nelle canzoni.
La donna africana nelle canzoni del primo colonialismo italiano

Immagine che ritrae una giovane donna africana fortemente erotizzata. Etiopia (?), 1936 ca. (da Wikimedia Commons)
La presenza coloniale italiana in Africa ha inizio il 10 marzo 1882 con l’acquisto della Baia di Assab, in Eritrea, da parte del governo italiano. Sin da subito vengono scritte canzoni sul tema, per lo più di carattere militare. Ma il primo brano in cui viene rappresentata una donna africana è Africanella scritta nel 1894. I temi riportati in questo periodo sono quelli della donna africana vista come l’espressione stessa della terra da conquistare e dell’esaltazione della sua bellezza esotica. Tuttavia la canzone del primo colonialismo italiano è caratterizzata dall’estemporaneità, poiché ancora priva di un impianto sistematico propagandistico, come invece presente negli altri colonialismi europei.
Il “filone abissino”. La donna nelle canzoni della guerra di Etiopia

Immagine pubblicitaria raffigurante “Faccetta nera”, 1936 ca. (da Wikimedia Commons)
I primi decenni del Novecento non conoscono una grande produzione musicale di ambientazione coloniale. A parte il brano A Tripoli! scritto in occasione della guerra di Libia nel 1911 e Banane Gialle del 1934, le canzoni di tema africano sono esigue. Con la guerra di Etiopia, tra il 1935 e il 1936, vennero composte oltre 40 canzoni “africaniste”, al punto di poter parlare di un “filone abissino”. Il tema centrale di questi brani è proprio la donna etiope. In canzoni come Africanella, Africanina (Pupetta mora) e O morettina, tutte scritte durante il biennio di guerra, le protagoniste sono presentate come figure infantili, incapaci di agire autonomamente.
Il regime intendeva volutamente presentare le donne etiopi come schiave del regime del Negus per giustificare la guerra di aggressione come una missione civilizzatrice. Inoltre, in questi brani compariva di frequente anche il mito della “bella abissina”, un’immagine della donna fortemente erotizzata utile al fine di invogliare gli uomini a partire per l’impresa. La tensione erotica è presente nella canzone Gambette nere e nella scenetta tra una ragazzina etiope e un soldato italiano Il bottone del legionario. Ma è Faccetta nera il brano che più di tutti rappresenta la figura femminile colonizzata. Scritta nel 1935, ebbe un larghissimo successo di pubblico. Nonostante tutto, la canzone ebbe sin da subito problemi con la censura. Dopo la dichiarazione dell’Impero Faccetta nera viene bandita perché auspicava una possibile unione tra italiani e africane.
“Faccetta nera lungi da me”. Le canzoni coloniali tra dichiarazione dell’Impero e leggi razziali

Primo numero della Difesa della Razza, 5 agosto 1938. Strumento principale dell’ideologia del razzismo scientifico (da Wikimedia Commons)
Il 9 maggio 1936 l’Italia ha il suo impero in Africa. Nel 1937 il governo varò le prime legislazioni razziali. Con il nuovo assetto non sono più permesse relazioni tra cittadini e suddite coloniali. La rappresentazione della donna africana cambiò radicalmente. Non si parla più in termini vezzeggiativi di “pupetta mora” o “morettina”. La nerezza assume il significato di sporcizia e contaminazione. Anche la scienza medica e gli intellettuali si mobilitano per sostenere il razzismo di stato, come testimoniano le pagine de La difesa della razza. Ne L’avventura di un soldato italiano in Abissinia, la “moretta” diventa un essere infernale sporco e contaminante. Nel 1936 le autorità fasciste misero al bando Faccetta nera e commissionarono un’altra canzone dall’emblematico titolo Faccetta bianca, ma senza successo.
L’eredità della canzone coloniale nel contesto postcoloniale
L’immagine della donna africana continuò a comparire in alcune canzoni anche nel periodo postcoloniale. Nel 1956 Pippo Maugeri scrisse Asmarina, un brano romantico dove viene decantata la bellezza di una giovane dell’Asmara. Completamente diversa è la canzone scritta nel 1967 da Pierfrancesco Pingitore, Il mercenario di Lucera, ambientata durante la guerra del Katanga nel 1960. Qui la donna africana compare solo ed esclusivamente come una prostituta al servizio dei mercenari. Il corpo della donna continua tutt’ora ad essere rappresentato in maniera stereotipata e disumanizzante sia nel cinema che nella pubblicità e non solo. Anche un famoso giornalista come Indro Montanelli, in alcune interviste tra il 1969 e il 1982, definì la sua “madama” etiope dodicenne “un animalino docile”. Nel 2013 Roberto Calderoli, all’epoca vicepresidente del Senato, definì l’allora ministra dell’integrazione di origine congolese Cécile Kyenge un “orango”.
Confronto tra Indro Montanelli (1909 – 2001) e Elvira Banotti (1933 – 2014) sul tema del “madamato” durante la trasmissione L’ora della verità del 1969