Un’epoca di rinnovamento

Il declino dell’Impero Romano immaginato da Thomas Cole nel XIX secolo (da Wikimedia Commons)
L’Alto Medioevo è un’età di profondi cambiamenti. Il più evidente è il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, istituzione che, se al suo apice era riuscita a gestire l’Europa occidentale tutta, fornendo ai suoi cittadini prosperità e tranquillità, veniva ora soggiogata da quelle popolazioni barbariche che nei secoli erano riuscite a penetrare all’interno dei suoi confini.
Questa caduta ebbe intense ripercussioni su quello che era stato il sistema che per secoli aveva caratterizzato il dominio di Roma. Le città, per esempio, non potendo più essere approvvigionate, cominciarono a svuotarsi. Le strade, fiore all’occhiello del sistema militare e commerciale romano, iniziarono ad andare in rovina, determinando una contrazione netta dei commerci. Gli stessi campi agricoli subirono un significativo ridimensionamento, passando dal dominare il paesaggio rurale, ad essere null’altro che una dimenticabile presenza in un mare di boschi, prati ed acquitrini.
Tutti questi cambiamenti dovettero essere particolarmente visibili nell’Italia centrosettentrionale, che, da fortemente romanizzata che era, divenne ben presto dominio di una popolazione germanica come i Longobardi, fiera delle proprie origini e intenzionata a mantenere le proprie istituzioni culturali, e che per secoli era stata uno dei bacini produttivi principali all’interno del mondo romano.
Fine dell’Optimum Climatico e crisi demografica
A determinare tutti questi mutamenti, tuttavia, non furono solo gli stravolgimenti istituzionali dovuti al crollo di uno stato e all’insediamento di un altro, ma anche la crisi climatica e quella demografica. Questi due fattori, strettamente interconnessi, contribuirono ad esacerbare, se non addirittura a causare le problematiche che poi porteranno alla chiusura dell’età antica. La fine del cosiddetto Optimum Climatico Romano causò un peggioramento ambientale che fu la causa di una riduzione della produzione agricola, cosa che rese più difficile il mantenimento della popolazione. Quest’ultima, già indebolita dal peggioramento della sua alimentazione, si trovò poi ad affrontare due ulteriori difficoltà: la guerra e la pestilenza. Il III secolo, in tal senso, è ampiamente conosciuto come il secolo dell’Anarchia Militare, e già a partire dall’imperatore Marco Aurelio, che morì probabilmente proprio per un’epidemia che prese il nome di peste antonina, si cominciò a vedere la diffusione di malattie infettive gravi.
Entrambi questi aspetti, dunque, causarono un ulteriore restringimento della popolazione, che, a sua volta, peggiorò le rendite agricole, dato che meno persone significava a meno forza lavoro. Ciò equivaleva ad una possibilità minore di mettere a coltura la terra, consegnandola, di fatto, al selvatico. Questo generò un ulteriore indebolimento della popolazione che si tradusse in un deterioramento istituzionale che, probabilmente, generò i cambiamenti a cui assistiamo tra IV e VI secolo, in un circolo vizioso quasi senza fine.
La foresta, un nuovo protagonista
Per via di tutto questo, giungiamo ad un Alto Medioevo che è composto da nuove forme di sfruttamento ambientale, che meglio si adattavano alle nuove condizioni climatiche e sociali. La frumenticoltura lasciò, infatti, spazio alla coltivazione di nuove specie di cereali, più resistenti e a bassa manutenzione come orzo o miglio. L’allevamento divenne semibrado, con gli animali, principalmente maiali, che vagavano con ben poca supervisione all’interno di boschi o prati, procacciandosi autonomamente il proprio nutrimento. L’allevamento in stalla fu limitato ai soli mesi invernali, dato che la mancanza di forza lavoro e di appezzamenti coltivabili rendeva difficile ammassare abbastanza foraggio per alloggiare gli animali per tutto l’anno.
Il bosco, di fatto, divenne la principale fonte per il sostentamento degli uomini altomedievali italiani, specialmente lungo il corso del Po, che più di tutti vide un’espansione dell’incolto lungo le sue rive. Oltre, infatti, a fornire pastura per gli animali, da cui poi derivavano carne, latte e latticini, era anche fonte di selvaggina, legname, castagne ed altre bacche o frutti selvatici. Di fatto, l’individuo medio di allora basava la propria dieta più su questi prodotti spontanei che non sul frutto del lavoro agricolo, proprio per l’incapacità di quest’ultimo di essere una fonte affidabile di nutrimento.
Uomini e porci
A sottolineare l’importanza che queste tipologie di attività dovettero avere per gli uomini dell’epoca, almeno nell’Italia padana, troviamo alcune interessanti testimonianze dell’epoca. In un censo che il monastero di San Colombano a Bobbio (PC) compilò nel 883, nel descrivere l’estensione ed il valore di un appezzamento boscoso di sua proprietà non si concentrò su fattori che a noi potrebbero sembrare più significativi, come l’estensione effettiva dell’appezzamento, l’altezza dei fusti degli alberi o il loro diametro, ma bensì su quanti maiali questa foresta potesse nutrire, all’incirca duemila capi.

Coppia di Maiali ritratti in una miniatura del Bestiario di Aberdeen XII secolo (da Wikimedia Commons)
Il valore dell’allevamento suino ci è suggerito anche dall’Editto di Rotari, legge eponima promulgata nel 643 dall’allora re dei longobardi. Si tratta di un documento che regola molteplici pratiche e punizioni, e, tra le innumerevoli normative riguardanti i riscatti che qualcuno doveva pagare in caso di danni ad altro, troviamo diverse voci riguardanti i porcari. Oltre a poter scoprire la loro forte bellicosità, questa raccolta legislativa ci permette anche di capire il valore dato a questi individui. In caso, infatti, una persona libera malmenasse un porcaro alle dipendenze di qualcuno, avrebbe dovuto pagare un’ammenda di venti soldi. La cifra, di per sé, non è esagerata, ma è la stessa somma che si sarebbe dovuta versare in caso un cittadino libero avesse ucciso un massaro affittuario, sottolineando nella disparità di sanzione anche una disparità nel valore sociale che queste due professioni dovevano avere.
Nuovi paesaggi, nuovi pericoli
Lo sfruttamento degli ampi appezzamenti boschivi pose l’uomo medievale di fronte a nuovi pericoli, legati soprattutto ai predatori, che avevano seguito l’espansione del loro habitat. Questi dovettero essere un rischio non solo per gli uomini, ma anche per gli animali che pascolavano liberamente, con lupi ed orsi tra le principali minacce. La loro presenza e le loro aggressioni divennero talmente comuni che ben presto queste due creature divennero simbolo di ferocia e crudeltà. Nonostante questo, a differenza di quello che sarà successivamente, nelle rappresentazioni che vengono date di questi animali, siano esse letterarie o visive, essi non vengono mai dipinti come sovrumani o demoniaci, ma, essendo comunque una parte familiare della vita degli abitanti della campagna, mantenevano le loro caratteristiche naturali. Non sono deformati, sono lupi normali, e spesso, anzi, assumono un ruolo attivo e positivo nelle diverse narrazioni.

Un lupo rappresentato in una miniatura fiamminga di XIV secolo (da Wikimedia Commons)
Un esempio si trova nell’evasione dalla prigionia di Lopichis, bisnonno di Paolo Diacono, scrittore che compose l’Historia Langobardorum, uno dei resoconti più dettagliati sulla popolazione. Catturato dagli Avari e tenuto in cattività per anni riuscì a liberarsi, ma fu solo grazie ad un lupo che lo aiutò, in un intervento quasi divino, a districarsi in un territorio come la Pannonia, dominato da estese foreste, per portarlo quasi alla civiltà. Ma abbiamo anche casi come quello di San Colombano in cui un orso, dopo che il santo glielo ebbe ordinato, smise di divorare la carcassa di un cervo per lasciare al lui la pelle affinché potesse farsene dei nuovi calzari, dimenticandosi della sua aggressività ed allontanandosi pacificamente.
Al di là della veridicità o meno di simili storie, è interessante notare come il tema della collaborazione con queste creature non fosse solo presente, ma quasi visto come naturale, tanto che anche nell’Editto di Rotari compaiono menzioni di pratiche simili.
Luogo d’incontri
La foresta era, dunque, anche un luogo d’incontro, con bestie selvatiche, ma non solo. Un luogo in cui le persone incontrano la morte (come nel caso dell’imperatore Lamberto), se stesse, ma anche la fede (come nel caso di Sant’Eustachio). Il collegamento tra Natura e Religione, tuttavia, non si esaurisce nelle mere conversioni, ma attraversa profondamente il panorama naturale, che diventa esso stesso medium di comunicazione della volontà di Dio, suggerimento di ciò che sarebbe venuto. Questo è visibile in autori come Paolo Diacono, con le spade di fuoco che precedono l’espansione longobarda in Italia, ma anche in autori come Gregorio Magno, che vede le diverse alluvioni che colpiscono Verona e Roma come segno dell’imminente Apocalisse. Ma diventa anche l’incarnazione stessa dell’ideale paradisiaco, che, per citare Vito Fumagalli, storico italiano che più di tutti si occupò di descrivere il rapporto tra Uomo, Natura e Cultura nell’Italia Altomedievale, viene visto come una …
Conclusione

Dante e il Leone nella selva oscura in un illustrazione di Gustave Dorè (da Wikimedia Commons)
L’Italia altomedievale, almeno per quello che riguarda la sua parte centrosettentrionale, è dominata dalla Natura in cui l’uomo, piuttosto che sottomettere e tentare di imporre, come in passato, il proprio dominio su di essa decise invece di viverci assieme, in maniera quasi simbiotica, accompagnando i cicli naturali ed evitando di abusare di ciò che offriva.
Tutto questo muterà progressivamente a partire dal Basso Medioevo, quando il rinnovamento sociale, demografico, culturale ed economico, contribuì ad un’espansione delle attività agricole a danno dell’incolto, che cominciò ad essere relegato ai margini del mondo umano e ad essere sempre più abusato. Quei paesaggi un tempo così centrali si trasformarono nella visione del cittadino bassomedievale, come fu Dante, in luoghi oscuri, portatori di perdizione e oscurità, e dunque non solo da evitare, ma anche da estirpare.