In copertina: Freak show alla fiera di Rutland, Vermont, 1941 (da Library of Congress).
L’eterna rimozione
Oggi si presta grande attenzione al linguaggio della disabilità e dell’inclusione perché si è consapevoli che anche le parole hanno un peso. Perché allora usare questo vocabolo denigrante? La parola “mostro” deriva dal latino monstrare, che significa “esibire”, “esporre”, “mostrare”. Termine significativo, perché la vita di tantissimi disabili è sempre stata segnata dallo sguardo altrui: uno sguardo univoco, discriminatorio, alienante.
Da secoli, la nascita di bambini malformati era accompagnata da scompiglio e sgomento che ne giustificavano l’esclusione reale e simbolica dalla società umana. Per gli antichi greci e romani, la creatura mostruosa era un segno divino e ammonitore: segnalava una colpa che bisognava espiare. La cultura cristiana fece propria questa concezione, tanto che ancora nel XVIII secolo è possibile individuare lo stesso sentimento di peccato collettivo o individuale legato alle nascite mostruose. I mostri non erano soltanto messaggi prodigiosi, ma anche mirabilia che procuravano un qualche piacere estetico: le corti europee rinascimentali e barocche non si facevano mancare nani, ermafroditi e altri mostri da esporre come “scherzi della natura”, equivalenti in carne e ossa degli oggetti straordinari ammassati nelle wunderkammern (“stanze delle meraviglie”). Eppure, a partire dal XVIII secolo si diffuse sempre più l’idea che la natura non fosse solita scherzare e che funzionasse invece secondo regole ferree: i mostri, quindi, non potevano che essere frutto di qualche meccanismo inceppato del mondo naturale.
Vagabondi ai confini del mondo e della società

Razze mostruose nel “Livre de merveilles“. Al centro si può osservare lo sciapode che si fa ombra con l’unico piede (da Wikimedia Commons)
Mostrare e viaggiare: due termini indissolubili nell’esperienza dei mostri tra Medioevo ed età contemporanea. Relegati ai margini del mondo umano, gli individui malformati venivano allontanati dalla società sia fisicamente che culturalmente: la mostruosità, infatti, fu associata alle zone liminali della geografia medievale e poi ancora alle nuove, misteriose terre che si andavano via via scoprendo dalla fine del XV secolo.
Fin dall’antichità si pensava che gli angoli sconosciuti del mondo fossero abitati da popolazioni mostruose ed esotiche: uno degli esempi più celebri è quello degli sciapodi, creature mitologiche dotate di un solo grande piede che si pensava abitassero le terre orientali. D’altronde, tutta la geografia medievale era imperniata sull’opposizione centro-periferia: la civiltà si trovava in Europa, centro del mondo allora conosciuto, mentre ai margini si relegava l’ignoto, il misterioso, il mostruoso. Ma l’universo medievale era destinato a sgretolarsi di fronte alle nuove scoperte geografiche e all’incontro turbolento con quelle popolazioni che apparivano così diverse da come erano state descritte per secoli nei libri. Il Nuovo Mondo, ancora tutto da esplorare, si caricò dei significati mitici dell’Età dell’Oro e degli Antipodi e si fece specchio in cui l’Occidente europeo credeva di osservare il proprio riflesso. La mostruosità divenne allora uno strumento con cui interpretare non solo la differenza culturale, ma anche le idiosincrasie del Vecchio continente.
Il viaggio e la lontananza, però, non erano soltanto chimere per i mostri umani. Coloro che sopravvivevano alla nascita venivano fin da subito esibiti dai genitori stessi, che traevano guadagno spostandosi di città in città e mostrando le deformità dei loro figli continuamente spogliati e osservati. Anche dopo la morte i loro corpi non trovavano pace, perché finivano nelle teche e nei barattoli di vetro di farmacie e gabinetti delle curiosità. Per i più fortunati, che giravano le più belle corti d’Europa alla ricerca di mecenati e protettori, l’esibizione della propria mostruosità poteva anche tradursi in favori, riconoscimenti e vitalizi: il prezzo da pagare, però, consisteva nella silenziosa accettazione dei pregiudizi altrui.
Due casi di ipertricosi
L’ipertricosi è una malattia ormonale o congenita che comporta la crescita eccessiva di peluria sul viso e sul corpo. Si tratta di una malformazione rimasta perlopiù sconosciuta fino alla metà del XIX secolo, ma che ha lasciato traccia di sé nelle vicende biografiche di alcuni individui nel corso del tempo.
I peli di Pedro Gonzalez lo condussero fino alla corte del re di Francia, Enrico II. Era solo un bambino di etnia guanci nato a Tenerife: eppure il suo aspetto impressionava gli astanti, che si interrogavano sulla sua natura umana o bestiale. Tutta la sua vita è stata condizionata dagli stereotipi altrui: il re voleva riscattarlo dalla sua condizione bestiale e primitiva facendogli imparare il latino; la regina Caterina de’ Medici gli diede in sposa una sua cortigiana per mettere in scena il mito della bella e della bestia; il suo nuovo mecenate, Ranuccio Farnese, voleva imprigionarlo nella gabbia dorata della corte parmense per mostrarlo ai suoi ospiti. Il figlio Arrigo, anch’egli peloso, cercò di liberarsi della pesante eredità del padre: sfruttando le sue origini esotiche e il “richiamo alla natura” che ben si confaceva al mito del selvaggio, chiese a Odoardo Farnese di spedirlo a Capodimonte, piccolo borgo rurale sulle sponde del lago Bolsena. A nulla valsero i suoi sforzi, perché i contadini di Capodimonte non si dimenticarono mai della sua folta peluria.
Julia Pastrana, nata in Messico, per tutta la vita non fu altro che un “fenomeno da baraccone”, manipolata dal marito e manager Theodore Lent. Julia si esibì in Nordamerica, in Europa e in Russia prima di morire di parto nel 1860, dando alla luce un bimbo altrettanto peloso che non le sopravvisse. La “donna scimmia”, la “donna orso”, l’”inclassificabile”: come Pedro, anche Julia era per gli altri un essere ibrido, un mostro nato in una caverna fra le bestie e i selvaggi, il famigerato “anello mancante” su cui si ossessionavano gli scienziati evoluzionisti. Ma il suo pelo le conferiva qualcosa di più: tipico attributo maschile, esso confondeva gli stereotipi di genere e la rendeva allo stesso tempo affascinante e ripugnante agli occhi del pubblico borghese. Finito nelle mani del medico russo Ivan Sokolov, il suo corpo imbalsamato fu esposto per decenni nei freak shows di tutta Europa prima di ricevere degna sepoltura nel 2013.
Esploriamo nel dettaglio alcune immagini di Pedro Gonzalez e Julia Pastrana: basta cliccare sulle lenti di ingrandimento per scoprire i segreti e le chiavi di lettura delle figure!
Il diritto di viaggiare

Da Flickr
Non è facile capire fino in fondo che cosa abbiano provato persone come Pedro, Arrigo o Julia. Tutto quello che ci è rimasto di loro sono le testimonianze di chi ha proiettato sulle loro esistenze pregiudizi propri. Dopo secoli di silenzio, le voci dei disabili sono oggi riemerse con la prorompenza di chi ha taciuto per secoli: chiedono di potersi muovere liberamente, senza impedimenti e barriere di alcun tipo. Reclamano il diritto di viaggiare. Ecco, dunque, che quello stesso atto che in passato li ha costretti a vagabondare ai margini del mondo e della società può diventare oggi un mezzo di libertà e di inclusione: gli attivisti, disabili e non, si battono per garantire a tutti le stesse garanzie e gli stessi comfort ancora troppo spesso negati, come dimostra la triste vicenda di Engracia Figueroa.
La strada da fare è ancora tanta, ma è un viaggio che vale la pena compiere.