Le cinque tribù civilizzate
Il primo contatto stabile tra nativi nordamericani e coloni inglesi avvenne con la creazione del primo insediamento inglese in America del Nord, Jamestown, nel maggio del 1607. Qui gli inglesi e i Powhatan strinsero rapporti che negli anni successivi vissero alterne fortune, tra periodi di collaborazione e di conflitto. Nei 150 anni successivi sulla costa atlantica gli inglesi stabilirono altre dodici colonie, alcune ex novo, altre sulla base di empori commerciali precedenti come Nuova Amsterdam, poi diventata New York. Il primo stop alla colonizzazione inglese verso ovest fu imposto dalla geografia: i monti Appalachi erano una barriera formidabile e gli inglesi si concentrarono nell’occupazione di questa vasta area, prima abitata da nazioni come gli Abenaki, i Pequot o i Lenape che furono le prime a dover scegliere tra soccombere o andare a Occidente.
Al termine di questa prima fase espansiva i coloni europei (nel frattempo erano arrivati tedeschi, irlandesi, francesi e via dicendo) iniziarono a stringere rapporti commerciali e diplomatici con le tribù situate sulla pedemontana occidentale della catena degli Appalachi. Nella parte meridionale di questa vi erano quelle che passeranno alla storia come “le cinque tribù civilizzate”: queste erano i Muskogee, i Chickasaw, i Seminole, i Choctaw e i Cherokee. Secondo uno dei consiglieri di Washington, William Knox, queste tribù sarebbero potute essere incorporate negli Stati Uniti d’America purché adottassero le colture civilizzate abbandonando il mais e le cucurbite, lasciassero le tende per le case di mattoni e rinnegassero il loro pantheon in favore del luteranesimo.
I Cherokee e la Virginia: una convivenza non facile
Il territorio dei Cherokee si trova sul confine occidentale della Virginia e della Georgia. I primi contatti del seicento si intensificarono mano a mano che un numero sempre crescente di coloni si trasferivano a ridosso (e talvolta all’interno) dei terreni di caccia condivisi con i Muskogee. Nel 1730 sette Cherokee viaggiarono, su richiesta inglese, fino a Londra per porre la propria firma su un trattato che avrebbe regolamentato il commercio e che riconoscesse la supremazia inglese sulle loro terre. Gli inglesi non potevano sapere che i Cherokee non avevano concezione di responsabilità politica nazionale, per cui i trattati sottoscritti con loro valevano solo per quei sette nativi. Il fraintendimento diede luogo ad una serie di conflitti e scaramucce di confine tra Cherokee e inglesi.

Targa commemorativa della prima guerra contro i Cherokee (da Flickr)
Nel 1750, su autorizzazione dei notabili Cherokee, gli inglesi realizzarono una serie di forti per impedire che i francesi mettessero piede nella regione durante quella che passerà alla storia come la guerra dei sette anni. Nel 1756 Amo-adawehi e un manipolo di guerrieri si unì alla colonna dell’esercito inglese per andare a intercettare gli Shawnee alleati dei francesi: al ritorno il manipolo sconfinò nelle terre dei coloni virginiani, dando luogo a degli scontri a fuoco in cui i Cherokee ebbero la peggio. Lo scontro fu l’inizio di una catena di eventi che rovinò il rapporto tra coloni e nativi e diede luogo a un conflitto che diventerà la “Prima guerra Cherokee”, che tra questi ultimi fu il motore di un cambiamento profondo della società che li porterà dall’essere un network acefalo di tribù a dotarsi di una struttura gerarchica. Londra, al contrario, riconobbe che l’aver dovuto occuparsi anche dei nativi l’aveva portata a spendere risorse eccessive. Con decreto reale del 1963 venne quindi impedito di creare colonie a Ovest degli Appalachi. Ai coloni, a cui era già stato vietato di acquistare terre dai nativi, questo nuovo divieto non piacque e andò a sommarsi alle vessazioni che porteranno alla guerra d’indipendenza.
Tentativi di integrazione culturale
Il trattato di Parigi del 1783 riconosceva come appartenente agli USA tutto ciò che stava tra la Florida e la regione dei Grandi Laghi. Queste terre erano abitate anche dai nativi, ma questi non furono convocati alle conferenze di pace. I neonati Stati Uniti ci misero qualche decennio ad adottare questo modo di pensare: il trattato di Hopewell del 1785 riconosceva ancora dei diritti ai nativi sulle terre che già possedevano, ma i Cherokee erano comunque costretti a guardarsi dall’intraprendenza dei coloni che recintavano per sé pezzi di terreno di caccia senza autorizzazione alcuna o dagli esperimenti statuali come lo Stato di Franklin, che intraprese una pulizia etnica contro i Cherokee prima di essere riassorbito dalla Carolina del Nord.

Lapide della tomba dove giace il capo Stand Watie, tra i negoziatori del trattato di New Echota (da Wikimedia Commons)
Il primo autore di una dottrina di relazioni con i nativi post-indipendenza fu William Knox, che riuscì a far adottare una politica di acclimatamento dei nativi nel nuovo stato americano. Gli sforzi del governo di Washington in tema di civilizzazione diedero buoni frutti, ma i prodotti degli artigiani nativi stavano iniziando a rivaleggiare in qualità e prezzo con quelli degli euroamericani tanto da doverne limitare l’attività commerciale. A inizio XIX secolo, tuttavia, iniziò a farsi largo tra i nativi l’idea che le pretese di Washington non sarebbero mai finite: era necessario iniziare a pensare ad un trasferimento nell’Ovest. Sotto pressione degli agenti governativi alcuni di questi migrarono in Arkansas, ma vennero ostracizzati dagli altri Cherokee. Nel frattempo proseguiva la gerarchizzazione della nazione con l’approvazione nel 1817 degli Articoli della Costituzione, una carta costituzionale che introduceva delle leggi che riguardavano tutti gli appartenenti alla nazione.
La rimozione e il Trattato di New Echota
La rimozione era una soluzione in antitesi con le idee di Knox, in quanto era come affermare che i nativi erano ineducabili e andavano allontanati per permettere a gente più civilizzata di insediarsi. Le idee razziste nei confronti dei nativi emersero insieme al nazionalismo organico, ma vennero favorite dalla pressione demografica degli Stati Uniti, che avevano fame di terre dove mettere a dimora i nuovi americani che giungevano ogni giorno dall’Europa o che nascevano già sul continente. Il primo a promuovere l’idea fu Jefferson, ma la spinta arrivò gradualmente, con gli agenti governativi che di tanto in tanto sollecitavano l’idea ai capi Cherokee.
L’Indian Removal Act (Legge di Rimozione dei Nativi) venne approvato nel maggio del 1830 da Andrew Jackson. I primi effetti della nuova policy emersero con il trattato di Dancing Rabbit Creek, stipulato tra il governo degli Stati Uniti e i Choctaw nel settembre dello stesso anno. Il trattato prevedeva una nuova patria nel Territorio Indiano, definito dall’Indian Intercourse Act e una somma di denaro come compensazione. Il Territorio Indiano nel 1907 diventerà uno stato vero e proprio e trarrà il nome dall’equivalente Choctaw per “terra delle persone rosse”, ovvero Oklahoma.
I Cherokee, dal canto proprio, videro progressivamente aumentare l’ostilità degli americani nei loro confronti. Con la “sentenza Worcester” la Corte Suprema degli Stati Uniti diede la competenza di gestire le questioni indiane al Congresso e segnò un primo punto a favore dei nativi, ma sia Washington che lo stato della Georgia non osservarono la sentenza. Tra i Cherokee la scena politica iniziò a fratturarsi con due partiti che emersero uno per difendere la posizione di rimanere nelle terre che erano loro da secoli e uno per cercare una via verso Ovest. Nel 1835 finalmente quest’ultima prevalse e venne siglato il trattato di New Echota, che prevedeva un territorio a Ovest per i Cherokee più una somma di denaro pari a 5 milioni di dollari. Per fornire un confronto l’acquisto della Louisiana gravò sulle casse pubbliche per 23 milioni di dollari.
Nunahi-duna-dlo-hilu-i
I primi a partire sotto la tutela del trattato presero le mosse nel 1836. Le spedizioni successive ebbero inizio nella primavera del 1837 con il capo John Ridge, leader del movimento favorevole alla migrazione, tra i primi a partire. Questo gruppo viaggiò perlopiù lungo il corso del fiume Tennessee e del Mississippi, rendendo il viaggio piuttosto facile e con poche perdite umane. Il gruppo successivo partì a ottobre ma non fu altrettanto fortunato, avendo incontrato neve, malattie e tempo avverso.
Il governo, tuttavia, riteneva che la rimozione stesse procedendo troppo lentamente: il generale che sovrintendeva alle operazioni, Winfield Scott, ricevette l’ordine di velocizzare le operazioni. L’ultimatum che pose per il 23 maggio del 1838 venne ignorato dai Cherokee, che vennero quindi catturati e rinchiusi per alcune settimane nei forti militari della zona. Questi spazi erano troppo stretti per poter contenere così tanta gente e ben presto scoppiarono epidemie di colera. Viste le condizioni in veloce deterioramento, Scott fece costruire undici accampamenti, più larghi dei forti ma comunque insufficienti per consentire uno stile di vita accettabile.
A giugno si prepararono a partire tre gruppi da 2.800 persone in totale: il primo gruppo giunse a destinazione senza problemi, ma il secondo si trovò a corto di barche su cui effettuare il viaggio. Il viaggio a piedi fu troppo gravoso per molti che morirono lungo il tragitto: 70 individui su 875 non videro mai l’Oklahoma. Il terzo gruppo chiese al governo e ottenne di poter ritardare la partenza dato che c’era una nuova epidemia di colera in corso: sfortunatamente gli ufficiali dell’esercito americano avevano già intimato di partire quando giunse la risposta positiva di Washington. Il gruppo, venuto a conoscenza del permesso accordato, chiese di tornare indietro, richiesta negata dall’esercito. Data la stagione calda inoltrata, i fiumi erano a secco ed era impossibile navigarvi tranne che con delle chiatte a fondo piatto, quindi i Cherokee di questo terzo gruppo furono costretti ad attraversare l’Alabama a piedi. I morti di questo terzo gruppo, flagellato dalla siccità e dalle epidemie, furono 140 su 1.100.
Gli ultimi Cherokee rimasti chiesero di poter posticipare la partenza fino a settembre, quando i fiumi sarebbero stati di nuovo navigabili. La richiesta venne accolta, ma i Cherokee sarebbero stati costretti a rimanere nei campi allestiti da Scott, sollevato dall’incarico dopo il disastro dell’ultima spedizione. Il nuovo coordinatore della migrazione, stavolta, sarebbe stato un Cherokee, più precisamente il capo John Ross, leader della fazione che desiderava rimanere ad Est. Questi divise la nazione in undici gruppi che viaggiarono da settembre a dicembre.

Cartellone esposto nella casa-museo di Thomas Hale, uno dei capi Cherokee che guidarono il viaggio in Oklahoma (da Wikimedia Commons)
L’essere rimasti nei campi fece sì che i Cherokee non avessero un cambio d’abito invernale per poter affrontare la traversata in autunno: molti di questi non avevano nemmeno scarpe, che in una traversata fatta perlopiù a piedi (la siccità perseverò fino a Novembre quell’anno, impedendo la navigazione di massa sui fiumi) sono un elemento cruciale. Secondo quanto scritto da John Ross, due nativi su tre non possedevano abiti adatti ed erano presenti solo 83 tende per 1.000 persone.
Durante il percorso vi furono diversi episodi di violenza, con i coloni che attaccarono le carovane che passavano sul loro territorio. Diversi migranti furono costretti a cacciare selvaggina o rubare bestiame perché i gruppi precedenti avevano azzerato la fauna nei luoghi di transito, inoltre la siccità persistente causò diversi problemi nel reperire scorte d’acqua. Non esistono numeri precisi su quanti abbiano perso la vita sul sentiero delle lacrime, ma il numero più citato sono i 4.000 del dottor Elizur Butler, mentre l’esercito americano fornì un conteggio pari a 2.500, ottenuto sottraendo il numero dei partenti con gli arrivi in Oklahoma.
I Cherokee, seppur lentamente, furono in grado di ricreare una propria complessità sociale in Oklahoma. La lentezza fu dovuta sia alla scarsa trasparenza dei bandi di concorso riservati a chi doveva fornire cibo e materiali ai migranti che al basso morale dovuto al trauma collettivo di una migrazione forzata che ha colpito ogni famiglia della nazione. La deportazione dei Cherokee fu uno dei primi esempi di genocidio sistematico organizzato sulla base delle idee nate dal nazionalismo organico e rappresenta l’inizio di un atteggiamento nei confronti dell’altro che perdurerà per tutto il XX secolo e si affaccerà anche nel XXI.