Il viaggio verso l’Italia
La pandemia di peste esplosa nel 1630 rappresentò uno degli eventi più drammatici che interessarono il Settentrione della penisola. Secondo gli studiosi che analizzarono il diffondersi delle infezioni nel continente europeo, la pestilenza ebbe origine in terra cecena. In tale territorio si trovava infatti una sorta di “serbatoio comune” dal quale provenivano le pandemie che colpirono ciclicamente l’Europa. Posta tra il Mar Caspio e il Mar nero, la Cecenia era un luogo di primaria importanza per lo scambio di merci tra l’Oriente e l’Occidente. Da lì partivano le carovane dei mercanti cariche di merci dirette verso i principali mercati del continente europeo.
Secondo quanto viene riportato dalle cronache dell’epoca, in particolare dal medico milanese Vincenzo Tadino, testimone diretto della pandemia nella città sforzesca, l’epicentro della “peste manzoniana” fu la città bavarese di Lindau. Posta al confine con la Svizzera, all’epoca era famosa per il suo grande mercato dal quale provenivano merci da tutto il mondo.
In Italia e, in generale, in tutta Europa, i rigidi inverni causati dalla “Piccola Era Glaciale”, la quale fu provocata dall’aumento delle eruzioni vulcaniche e dalla diminuzione dell’attività solare, aggiunti alla difficile situazione sociale portata dalla Guerra dei Trent’anni, crearono le basi per il diffondersi dell’infezione. Furono infatti gli eserciti, in particolare quello dei Lanzichenecchi che soggiornò nella città bavarese di Lindau, a portare nel Settentrione la pandemia. Teatro della “fase italiana” della guerra che aveva come protagonisti la Francia, il Sacro Romano Impero e la Spagna, il Nord Italia, a partire dal settembre del 1629, iniziò ad essere falcidiato dal morbo.
La peste negli antichi Stati Italiani
Diretto a Mantova, al tempo contesa tra l’esercito l’Impero tedesco e la Francia, l’esercito lanzichenecco superò il confine del Ducato di Milano provenendo dalla Svizzera. Sostando in diverse città, la peste ebbe così la possibilità di diffondersi tra la popolazione che, come ricordato poc’anzi, già soffriva a causa della carestia.
Com’è risaputo, la città che subì le perdite più ingenti fu Milano. Iniziata a diffondersi già dai primi giorni del passaggio delle truppe, la peste rimase in una sorta di incubazione per tutto l’inverno per poi esplodere durante l’estate del 1630. Le autorità competenti furono restie a dare l’allarme. Tuttavia, spinte dalla necessità di dare una spiegazione agli eventi, tentarono inizialmente di far ricadere la colpa della pestilenza, diventata nell’autunno del 1630 incontrollabile, sugli “untori”. Celebri durante il Seicento, queste figure avevano la fama di aggirarsi per le vie delle città e di cospargerle del morbo. Il numero degli infettati fu drammatico anche in altre città. Torino, Brescia, Bologna, Firenze, Padova e Treviso, escludendo Venezia, alla quale verrà dedicato in seguito un capitolo, furono altresì colpite duramente dalla pandemia. In totale, il numero di morti alla fine della pestilenza, indicativamente nel 1633, si aggirò intorno a 1.100.000 unità.

Jacopo Tintoretto, San Rocco colpito dalla peste, 1559. Venezia, Chiesa di San Rocco (da Wikimedia Commons)
La Serenissima in ginocchio
A causa della difficile situazione creatasi, Venezia non riuscì ad evitare il peggio. La peste, secondo le cronache, giunse in città l’8 giugno 1630. A differenza delle precedenti pandemie, la conoscenza della data e del nome di colui che portò il morbo fu possibile per via dell’importanza del personaggio giunto in laguna. Il paziente “zero” di Venezia fu infatti il nobile marchese De Strigis, ambasciatore del Duca di Mantova; territorio in cui erano in corso i pesanti scontri contro i Lanzichenecchi.
La preoccupazione era molta tra le autorità, e le notizie che giungevano dalla terraferma avrebbero dovuto convincerle del pericolo, ma gli interessi economici erano molti e si preferì, sulla falsariga di quanto accadde a Milano, una politica attendista. Le ragioni di stato prevalsero quindi sul buonsenso dei medici, gettando le basi per la creazione di una catastrofe simile, per numeri e dimensioni, alla pestilenza del 1575. La città in quegli anni contava infatti quasi 150.000 abitanti. Un numero elevatissimo dato lo spazio ristretto. Nel Settentrione, solamente Milano ne contava un numero superiore. Tutti elementi quest’ultimi che, com’è oramai risaputo, hanno un ruolo fondamentale nelle dinamiche che caratterizzano il contagio.
Il morbo dilaga nella laguna
Tornando allo scenario interno, la frattura tra chi negava la presenza di una pandemia in città e chi parlava apertamente di contagi incontrollabili causò non pochi ritardi. Nel frattempo la popolazione continuava a morire, e in assenza di ulteriori informazioni, conduceva la propria vita come se fosse in condizioni di normalità. In poche settimane vi fu un aggravamento esponenziale della situazione. Solo i medici, riconoscibili dalla maschera “a becco” e dalla lunga tunica nera, rimanevano in prima linea. Quest’ultimi si aggiravano infatti tra le case e nei lazzaretti visitando i pazienti attraverso dei lunghi arnesi, che evitavano il contatto con le persone.
Grazie alla diligenza di costoro ed ai “Provveditori alla sanità”, i quali avevano il compito di tenere il conteggio giornaliero dei decessi, oggi ci è dato a sapere il numero certo dei morti di quel periodo. Dal luglio del 1630 all’ottobre dello stesso anno morirono in città e nei lazzaretti circa 46.400 persone. Se a questo numero vengono aggiunti i decessi provenienti dalle isole della laguna il conteggio sale a circa 92.200 morti. Quasi il 50% della popolazione lagunare.
Le autorità dello stato compresero infine la gravità della situazione. Vennero infatti impediti gli ingressi in città agli estranei, tranne ovviamente per i necessari rifornimenti. Anche in questo caso, come accadde a Milano nello stesso periodo, la caccia ai presunti untori era una pratica quotidiana. In questo caso però, non si ridusse con la morte degli imputati. Purtroppo, a causa dell’assenza di un rimedio scientifico adatto a combattere l’infezione, serviva tempo affinché le pandemie giungessero alla fine. La peste manzoniana iniziò a scomparire solo nel 1633, anno in cui anche gli ultimi focolai iniziarono a spegnersi completamente.

G. Le Court, Altare della Basilica della Salute a Venezia, 1674. A partire da sinistra, troviamo la personificazione di Venezia, in atto di supplica alla Madonna con in braccio il Bambino, la quale le porge la mano e fa scacciare ad un angelo. Nella scultura, la personificazione della peste viene rappresentata come una vecchia malandata (da Wikimedia Commons)
Conclusioni
Similmente a quanto accadde nel secolo precedente, la pestilenza si rivelò essere uno spartiacque per la società dell’epoca. L’elezione di un nuovo Doge, la costruzione di nuovi simboli per la città che testimoniassero l’avvenuto, come la Basilica di Santa Maria della Salute, e l’indizione di nuove ricorrenze e festività, ebbero come obiettivo principale il ricordo della tragedia.
Il lungo viaggio compiuto dalla pestilenza che ha investito il nord Italia durante il 1630 ha portato ad una lunga serie di conseguenze che modificarono la storia dell’epoca ed ebbe inoltre la capacità di fare riflettere la popolazione sulla fragilità della vita. Gli artisti che trassero lo spunto dalla morte per le proprie opere, come ad esempio il Tiepolo, furono infine le persone che riuscirono a imprimere questa consapevolezza e a tramandarla alle generazioni future.
Quello che però è certo è che le pestilenze, nonostante il periodo emergenziale creato inizialmente, hanno sempre rappresentato una svolta. Il terrore generato dalla morte, veniva rimpiazzato dalla volontà di rinascita collettiva. Un auspicio che, data la situazione odierna, non può che essere un esempio da imitare.