– di Eddy BENATO, Mara CARON e Rebecca IVKOVIĆ
Lo scopo del sito “Il Liutaio nel Bazaar” è creare un luogo sulla rete dove condividere i lavori di ricerca degli studenti di storia con il pubblico e intrattenere un discorso con quest’ultimo, aprendo le porte dell’accademia e rimanendo sempre sensibili agli input dei propri lettori. A seguito della conclusione della prima parte del progetto, tre membri riflettono sulle possibilità e le difficoltà della digital public history nel panorama culturale italiano.
Una lotta all’algoritmo: il problema dei contenuti culturali sul web
Come esplicitato precedentemente dalla mia collega Mara, la possibilità di utilizzare contenuti audiovisivi all’interno delle pagine web apre nuove possibilità alla divulgazione storica verso il pubblico non accademico. È l’obiettivo principale della digital public history: rendere il più possibile accessibile ai non esperti del settore una conoscenza precedentemente reclusa tra le mura delle università.
Questa pratica di democratizzazione delle informazioni storiche deve però scontrarsi con una serie di ostacoli significativi all’accessibilità dei contenuti. Certamente possiamo ricordare le barriere linguistiche, che limitano pesantemente la diffusione delle informazioni, o quelle informatiche: dopotutto il digital divide, l’esclusione di una grande fascia della popolazione mondiale dall’accesso alle risorse digitali, è una realtà con la quale bisogna costantemente confrontarsi. Ma ciò di cui vorrei parlare riguarda un problema ancora più diffuso sulla rete: la difficoltà ad ottenere e mantenere l’attenzione del lettore. Non è un problema di poco conto: già Zygmunt Bauman nel suo pionieristico Modernità liquida ci mise in guardia sulla tendenza del nuovo secolo a preferire soddisfazioni date da contenuti facilmente assimilabili e non duraturi.
Basta fare una breve ricerca su piattaforme come YouTube per riscontrare come oggi una grande fascia della popolazione abbia difficoltà a mantenere l’attenzione di fronte a contenuti informativi che richiedono un maggior sforzo mentale. Non mancano infatti centinaia di tutorial su come essere più produttivi e liberarsi dalla dipendenza da social media. I siti e le piattaforme online di maggior successo lo sanno e per questo motivo strutturano i propri canali facendo sì che i contenuti siano accessibili tramite il minor sforzo possibile, privilegiando quelli più visivamente accattivanti ma poveri di informazioni di valore culturale.
Si prenda l’esempio di TikTok, una delle piattaforme oggi più utilizzate. Aprendo l’app non bisogna nemmeno ricercare i video di proprio interesse: è l’algoritmo, scrupolosamente studiato, ad offrire una serie infinita di contenuti scelti apposta per mantenere l’attenzione, inserendo l’utente in una continua spirale di stimoli dalla quale è difficile distogliere lo sguardo. Se è l’algoritmo a scegliere cosa dobbiamo guardare, i contenuti di divulgazione culturale, che per propria natura richiedono uno sforzo mentale maggiore, non ricevono una copertura degna del loro valore. È una continua lotta sulla rete per raggiungere il pubblico, dove siti come il nostro partono fortemente in svantaggio.
Attualmente stiamo lavorando per ovviare al problema e ottenere una maggior diffusione dei nostri lavori. Ma la complessità dei nostri contenuti, nonostante il costante lavoro di rielaborazione per il pubblico, e la difficoltà a farsi notare in un flusso di offerte in continua espansione, rimangono un ostacolo significativo sul nostro cammino. La digital public history, più in generale, dovrà infine trovare presto una soluzione per continuare a definirsi e ad essere davvero public.