– di Eddy BENATO, Mara CARON e Rebecca IVKOVIĆ
Lo scopo del sito “Il Liutaio nel Bazaar” è creare un luogo sulla rete dove condividere i lavori di ricerca degli studenti di storia con il pubblico e intrattenere un discorso con quest’ultimo, aprendo le porte dell’accademia e rimanendo sempre sensibili agli input dei propri lettori. A seguito della conclusione della prima parte del progetto, tre membri riflettono sulle possibilità e le difficoltà della digital public history nel panorama culturale italiano.
La digital public history: un bisogno, forse una necessità
La storia su internet va ancora di moda. C’è il successo dei podcast di Alessandro Barbero, le pagine Facebook di divulgazione, i video su YouTube… Eppure, anche qui, non manca qualche problema. Si parte con gli articoli spazzatura e poi si arriva alle vere e proprie fake news. Non è una novità che, soprattutto su temi ancora sensibili della storia del Novecento come il fascismo, la Shoah o le stagioni della politica e della vita civile, qualche apologeta decida di ricamarci sopra. Si confezionano così storie tranquillizzanti o assolutorie di questa o quella tendenza.
Viene meno il rigore di chi dovrebbe parlare del passato, il riferimento al documento o alla fonte. Si può aggirare il tutto con qualche arguta invenzione che permetta di continuare la propria narrativa senza grossi intoppi. Provare a fare digital public history vuol dire mantenere la serietà di una pubblicazione scientifica, di una ricerca originale e documentata, come la si farebbe nell’accademia, ma riuscendo a venire incontro a un pubblico più ampio.
Il caso del Veneto potrebbe essere esemplare: lo sviluppo di una forte identità veneta ha spesso piegato l’interpretazione della storia dell’antico regime a certe letture molto forzate. Blog, siti e community di nostalgici della Serenissima hanno costruito l’immaginario di un paradiso perduto, un mondo all’avanguardia misteriosamente finito nel 1797 che, forse, può tornare se si permette il compiersi di qualche vago disegno politico.
Narrazioni bizzarre, ma facilitate o forse rese possibili proprio dal mancato coinvolgimento dei non addetti ai lavori. La disciplina appare distante, noiosa, la si guarda con sospetto, forse è anche inutile. Provare a includere, con un linguaggio semplice, ma non banale, vuol dire anche ricostruire un contesto. Dare uno sfondo alle vicende, soprattutto quelle più difficili e contorte. Lo scopo della public history, insomma, non è evitare i temi più controversi, ma provare a far passare il messaggio che, più che i singoli fatti, contano i contesti, le letture, e che la polemica che può nascere da diverse interpretazioni non è mai un male di per sé, se ci si abitua a pensare che i dibattiti sono un gioco delle parti dove si può anche essere schierati, tenendo salva l’onestà verso sé stessi e i lettori.